Una rilettura di 1 Corinzi 12 alla luce del dialogo interconfessionale contemporaneo
L’ecclesiologia paolina del corpo ecclesiale
Nel dodicesimo capitolo della Prima Lettera ai Corinzi, Paolo presenta la sua ecclesiologia istruendo i cristiani di Corinto sulla necessità di considerare la Chiesa come un corpo formato da molte membra, ciascuna con la propria funzione. Una metafora verosimilmente attinta dal pensiero greco che l’Apostolo ha saggiamente trasferito nella sua riflessione per affrontare uno dei problemi che dividevano la comunità.
Il brano identifica Cristo stesso come il corpo ecclesiale, formato da molteplici parti come il nostro. Queste parti siamo noi credenti, «battezzati con lo stesso Spirito», e proprio per questo Dio ha assegnato a ciascuna parte una funzione specifica. Ogni parte risulta quindi essenziale per il corretto funzionamento del corpo e nessuna può dire all’altra: «Non ho bisogno di te». Paolo evidenzia addirittura come le «parti più deboli» siano in realtà quelle «più necessarie» e quelle «meno nobili e decenti» necessitino di «maggiore premura».
Pur non condividendo personalmente la visione paolina del corpo – ritengo infatti inesistenti parti corporee meno nobili, considerando tale prospettiva retaggio di tabù culturali del mondo semitico dell’epoca – è importante sottolineare come nel corpo «non esistano divisioni»: se «una parte soffre, tutte le altre soffrono con lei; e se una parte è onorata, tutte le altre si rallegrano con lei».
Questa riflessione conduce Paolo a riconoscere l’esistenza di diversi ruoli ecclesiali assegnati da Dio stesso, che ha dato a ciascuno il proprio posto e una funzione specifica. Esistono infatti gli Apostoli, i profeti, i catechisti, i guaritori, chi compie miracoli, chi assiste i malati, chi organizza, e chi ha il dono di «parlare in lingue» – quest’ultima categoria particolarmente preoccupante per l’Apostolo.
Il senso del discorso paolino consiste nel far comprendere ai corinzi la necessità di mantenere ordine nei ruoli, di evitare improvvisazioni e di discernere ciascuno la propria vocazione. Tutto ciò perché, come emerge dalla lettura dell’intera lettera, nella comunità regnavano numerosi disordini che richiedevano l’intervento apostolico per ristabilire l’ordine.
La stratificazione storica dell’interpretazione ecclesiastica
Questo passaggio ha sempre giustificato, nell’interpretazione cattolico-romana come nelle diverse chiese, l’organizzazione gerarchica definendo la struttura ecclesiale nei suoi ruoli specifici: clero (nei suoi diversi gradi), religiosi e consacrati, laici (con i diversi ministeri). Tale strutturazione non è certamente paolina, ma si è consolidata nei secoli, particolarmente dal momento in cui la Chiesa – allora unica e indivisa – divenne religione ufficiale dell’Impero romano con Costantino e i suoi successori.
In questo periodo l’organizzazione politica romana iniziò a influenzare quella ecclesiale, creando una sintesi che considero problematica, poiché la Chiesa iniziò a compromettere la propria missione spirituale con il potere temporale.
I vescovi divennero non solo guide delle comunità, ma veri amministratori imperiali. In questo contesto si svilupparono i simboli del potere episcopale che ancora oggi conosciamo. Il pastorale episcopale, pur derivando originariamente dal bastone del pastore biblico, durante il periodo costantiniano e post-costantiniano assunse forme e significati richiamanti le insegne del potere imperiale, diventando simbolo di autorità temporale oltre che spirituale.
Il vescovo celebrava e insegnava nella basilica, edificio che prende il nome dal greco basileus (re) e che, pur avendo origini come spazio per attività amministrative romane, divenne il modello architettonico privilegiato per il culto cristiano. Quando non era nella sua sede, il vescovo aveva il privilegio di sedersi sul faldistorio, lo scranno che nell’etichetta imperiale era riservato all’imperatore – prassi mantenuta nella Chiesa Cattolica Romana fino a pochi decenni fa.
Verso una rilettura ecumenica del testo paolino
Ritornando alla lettera di Paolo, mi sono chiesto se questo testo non possa essere interpretato diversamente, o meglio, più ampiamente. Considerando i progressi della teologia nei diversi secoli e, non ultimo, l’ecclesiologia contemporanea, dove la Chiesa può essere considerata in modo più esteso ed ecumenico, non potremmo inserire il discorso di Paolo nella considerazione che il corpo di Cristo – giustamente composto da molteplici membra – non sia formato solo dalla Chiesa di Roma, ma da tutte le chiese? Ovvero da tutti i credenti, indipendentemente dalla loro denominazione?
Questa intuizione non è nuova, già Yves Congar, il grande domenicano francese pioniere dell’ecumenismo, nel suo celebre Cristiani disuniti del 1937 presentava l’ecumenismo non come ritorno alla Chiesa cattolica, ma come sviluppo della cattolicità. La sua visione della Chiesa come communio anticipava l’idea che le diverse denominazioni potessero essere parti complementari di un unico corpo ecclesiale.
Penso quindi fermamente di sì. Credo che non solo le diverse Chiese siano valide, ma anche necessarie. Il Corpo di Cristo non può essere più articolato e complesso di come lo vedeva Paolo ai suoi tempi?
Ritengo che questa domanda possa avere solo risposta affermativa. Paolo, del resto, non viveva la complessità odierna e la Chiesa stessa era agli albori; sarebbe stato impossibile per lui ragionare in modo così esteso. La nostra interpretazione attuale invece lo consente.
Possiamo quindi pensare che il Corpo di Cristo abbia Lui stesso come capo e le diverse Chiese come membra? Ne sono convinto, e se così fosse, ogni chiesa avrebbe una sua funzione, un suo compito, una sua ragione d’essere. Anche il teologo Jean-Marie Tillard, domenicano canadese perito conciliare al Vaticano II, nella sua opera Chiesa di chiese sostiene infatti che la ricerca ecumenica deve fondarsi sulla «cattolicità della comunione», dove ogni tradizione cristiana conserva «i propri tratti specifici» all’interno di una comunione più ampia.
Le implicazioni di una visione ecumenica del corpo ecclesiale
Nessuna chiesa potrebbe quindi dire all’altra: «Io non ti riconosco», oppure «Tu non servi a nulla», o ancora «Tu non sei una vera chiesa». Sarebbe come se una mano dicesse queste cose a un piede o se lo stomaco le dicesse all’intestino! In un corpo umano si creerebbe una situazione di contrasto tale da causare una condizione patologica di rigetto e quindi una grave compromissione della salute.
Qualcuno potrebbe obiettare che le diverse chiese sono nate da scismi ed eresie. Chi sostiene questo sono principalmente i cattolici e, in parte, gli ortodossi (che, oltretutto, furono protagonisti della prima grande divisione della cristianità nel 1054!). Considerano ogni forma eterodossa come una sorta di «tumore» del corpo ecclesiale, ma se questa diagnosi fosse errata? Se le diverse chiese che nel corso del tempo sono state definite «eretiche» non fossero altro che parti più articolate dello stesso corpo, volute da Dio stesso per rispondere a bisogni specifici dell’umanità?
In questa direzione si muove anche il metropolita ortodosso Ioannis Zizioulas, considerato uno dei più importanti teologi ortodossi contemporanei, con la sua concezione della «simultaneità tra l’uno e i molti» che riflette la natura stessa di Dio Trino e apre la strada a comprendere come le diverse tradizioni cristiane possano coesistere come membra di un unico corpo.
Sappiamo che, grazie alle diverse denominazioni cristiane, il cristianesimo ha raggiunto tutta la terra espandendosi notevolmente. La Chiesa di Roma, nonostante la sua influenza storica e le sue risorse, non domina ovunque. Esistono vaste zone del mondo dove la maggioranza dei cristiani appartiene ad altre denominazioni.
Forse le divisioni non sono vere fratture patologiche e le diverse teologie non sono aberrazioni, ma modalità differenti di intendere Cristo e la Chiesa, funzionali per contesti culturali e spirituali specifici.
La legittimità teologica del pluralismo ecclesiale
Forse non è evangelicamente giustificabile che una chiesa possa dire all’altra «Tu non esisti» o «Io non ti riconosco». Tale atteggiamento non corrisponde nemmeno allo spirito del Vangelo.
Già in epoca apostolica sorgevano differenti esperienze ecclesiali – alcune di fatto poi «deviate» dall’influenza di filosofie estranee come lo gnosticismo – ma, del resto, la Chiesa ufficiale non ha a sua volta permesso alle diverse filosofie di arricchire il proprio pensiero? Certamente sì! La dottrina della Chiesa di Roma è profondamente influenzata dall’aristotelismo e dal platonismo, per fare un esempio specifico, e non credo che gli Apostoli di Gesù fossero filosofi greci, e nemmeno Gesù stesso.
La Riforma protestante, con tutte le complessità storiche che potremmo evidenziare, ha rappresentato un tentativo di riportare la Chiesa a uno stato più fedele alle origini attraverso la dottrina della sola scriptura, ricentrando la fede sulla Parola di Dio. Le altre chiese hanno apportato al corpo ecclesiale l’attenzione su funzioni differenti: quella ortodossa sulla spiritualità contemplativa e la dimensione liturgica; quella anglicana originale (la Chiesa d’Inghilterra) sulla necessità di una via media tra cattolicesimo e protestantesimo; le Chiese evangeliche su modalità diverse di concepire il ministero e l’evangelizzazione; e le chiese come la nostra, pur piccole e recenti, sull’urgenza dell’inclusione e dell’accoglienza.
Concludendo
Può una chiesa dire all’altra «Io non ti riconosco»? Credo di no, e ritengo che questo sia un grave errore ecclesiologico per chi si comporta in questo modo, oltre che una contraddizione rispetto al messaggio evangelico dell’unità in Cristo. Del resto, questa prospettiva ecumenica trova autorevoli conferme in alcuni dei più influenti teologi del ventesimo secolo, dimostrando come tale interpretazione estensiva di 1 Corinzi 12 non sia una forzatura del testo paolino, ma una legittima e necessaria attualizzazione del suo messaggio per il nostro tempo.
L’ecclesiologia del futuro dovrà necessariamente confrontarsi con questa realtà plurale del cristianesimo, non per annacquare le specificità delle diverse tradizioni, ma per riconoscere in esse la ricchezza di un corpo che, nella sua diversità, testimonia l’inesauribile mistero di Cristo.



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